I latini indicavano con arbor infelix (albero o pianta infelice) l'albero che, diversamente dall'arbor felix (albero felice) non dava frutti o ne produceva di selvatici e non commestibili. L'espressione veniva utilizzata anche in ambito religioso e cultuale, distinguendo le piante benefiche da quelle maledette e care agli dèi inferi, delle quali un elenco si trova in Macrobio: il linterno, la canna sanguinea, la felce, il fico nero e quelle che hanno bacche e frutti neri, come l'agrifoglio, il pero selvatico, il pungitopo, il lampone e i rovi.

In particolare, Plinio riferisce che sono dette infelices e damnatae le piante che «non vengono mai seminate e non portano frutto». Macrobio informa altresì che queste liste erano presenti in un'opera di Tarquinio Prisco, l'Ostentarium, e pertanto riflettono una tradizione etrusca.

In altro contesto è ancora citato l'arbor infelix. Definita la lex horrendi carminis, che colpiva i rei di perduellio, Livio descrive la pena irrogata al colpevole: «gli sia coperto il capo, sia sospeso con una corda all'albero infelice, sia frustato dentro e fuori il pomerio». Essere sospeso all'albero significava esservi legato in posizione elevata da terra e il condannato veniva battuto con le verghe fino a provocarne la morte.

Note

Bibliografia

  • (FR) Jacques André, Arbor felix, arbor infelix, in Marcel Renard e Robert Schilling (a cura di), Hommages à Jean Bayet, Bruxelles, Latomus, 1964, pp. 35-46.
  • Eva Cantarella, I supplizi capitali. Origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma, Milano, Feltrinelli, 2011 ISBN 978-88-07-72277-6

Collegamenti esterni

  • (LA) Festo, De verborum significatione, 1826, su archive.org.
  • (LA) Nonio Marcello, De conpendiosa doctrina, 1903, su archive.org.

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